Francesco Brunello Zanitti, ricercatore dell’IsAG, è stato intervistato lo scorso 26 dicembre da Radio Italia dell’IRIB a proposito del suo recente libro Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto, pubblicato sotto l\’égida dell\’IsAG. Seguono l’audio e la trascrizione dell’intervista.
Il dottor Brunello Zanitti è ricercatore dell’IsAG per l’area Asia Meridionale e autore del libro “Progetti di egemonia”. Ci potrebbe spiegare quali sono i temi principali trattati nel suo libro?
Il libro considera un particolare aspetto della speciale relazione esistente tra Stati Uniti e Israele, ovvero lo stretto legame tra il neoconservatorismo statunitense e il neorevisionismo israeliano, due gruppi politici molto influenti nei rispettivi paesi, ma che hanno delle origini molto diverse. La speciale relazione tra Stati Uniti e Israele è stata particolarmente enfatizzata dai protagonisti di questi due movimenti, soprattutto durante l’amministrazione di George W. Bush. Prendendo spunto da alcuni articoli e saggi scritti da autori israeliani e statunitensi che hanno già considerato questo particolare aspetto, il mio libro analizza le principali differenze per quanto riguarda le origini storiche ed ideologiche dei due movimenti, ma anche i difformi retroterra culturali. L’obiettivo fondamentale è la ricerca delle principali similitudini, considerando soprattutto la peculiare visione della politica estera e il ruolo che Stati Uniti e Israele dovrebbero ricoprire a livello mondiale e regionale. Nella mia analisi ho esaminato alcuni aspetti che accomunano questi due gruppi. Ad esempio, un forte nazionalismo, molto più marcato nella destra israeliana, ricordando che il neorevisionismo si collega strettamente al Likud attualmente guidato da Netanyahu. Ci sono poi delle tendenze espansionistiche e militariste molto forti, connesse a un’idea di egemonia mondiale per quanto riguarda gli Stati Uniti e un’idea di egemonia regionale per quanto concerne il neorevisionismo israeliano. Inoltre, c’è una considerazione molto importante che riguarda l’eccezionalismo dei propri paesi rispetto alle altre nazioni, l’idea che Stati Uniti e Israele ricoprano una sorta di compito nell’insegnare alle altre nazioni il corretto sistema politico da adottare. Questo aspetto è collegato all’ideale di esportazione della democrazia, principio molto significativo nel neoconservatorismo americano. Un altro fattore rilevante è l’utilizzo della guerra preventiva, enfatizzata dai neoconservatori soprattutto durante l’intervento in Iraq nel 2003 da parte degli Stati Uniti. Questo ideale di guerra preventiva è connesso alla presenza costante di un nemico. Il neoconservatorismo si sviluppa negli anni ’70 negli Stati Uniti, periodo in cui il nemico era naturalmente il comunismo e l’Unione Sovietica, mentre durante gli anni ’90 e 2000 questo nemico si è trasformato diventando il terrorismo internazionale e i cosiddetti “Stati canaglia” che sponsorizzano il terrorismo di matrice islamica. Per quanto riguarda invece Israele il nemico è sempre stato il mondo arabo e i movimenti palestinesi. Queste costanti minacce a livello mondiale portano i neoconservatori e i neorevisionisti a considerare l’epoca contemporanea simile a quella degli anni ’30, paragonandola al 1938 con possibili ripetizioni di nuove guerre mondiali, da evitare, favorendo non solo una maggiore presenza politica interna dei due gruppi politici negli Stati Uniti e in Israele, ma anche adottando una decisa politica estera, aggressiva e nazionalista.
Se non sbaglio lei evidenzia come gli interessi di questo speciale legame risiedano non solo in questioni morali ma soprattutto in questioni economiche. Giusto?
Sì, anche economiche e geopolitiche. Naturalmente il sistema politico statunitense consente a diversi gruppi di pressione d’influenzare la politica interna ed estera. Questo fattore è sempre stato presente nella storia degli Stati Uniti. A livello economico è molto importante la cosiddetta Israel Lobby che influisce sulla politica estera del paese, non dimenticando che la comunità ebraica negli Stati Uniti è la seconda più importante dopo quella d’Israele. Quindi anche la minoranza ebraica nel paese ha un certo peso e si può osservare come la politica estera statunitense sia legata appunto a collegamenti di tipo morale, ma anche economico. Israele è sempre stato considerato nel Vicino Oriente un baluardo della democrazia, della libertà e dei valori occidentali contrapposti prima al comunismo durante il periodo della Guerra Fredda; in seguito e anche nella fase attuale contrapposto al terrorismo internazionale collegato a motivi di carattere religioso. Nel mio libro considero il fatto che questi elementi siano utilizzati per difendere degli interessi geopolitici ed economici, vista e considerata l’importanza fondamentale dal punto di vista geopolitico dell’area vicino-orientale, se si fa riferimento alle risorse di idrocarburi e alla zona di collegamento tra tre continenti, Asia, Africa ed Europa, rappresentata dal Vicino Oriente.
Lei nella sua analisi fa riferimento alle lobby ebraiche, cioè all’idea che questa lobby influenzi la politica estera statunitense, sempre rivelatasi filo-israeliana. Ci potrebbe spiegare fino a che punto questa abbia pesato nelle scelte di Washington e perché?
La lobby ebraica è una dei gruppi di pressione politica che esistono negli Stati Uniti; però, secondo la mia opinione, non ha avuto un ruolo costante nel tempo. Ad esempio per quanto riguarda alcune epoche storiche degli Stati Uniti, la lobby ebraica si è fatta sentire in maniera diversa. Durante l’epoca neoconservatrice, il legame tra Stati Uniti e Israele si è fatto decisamente sentire e lo abbiamo visto nell’intervento statunitense in Iraq e poi anche nella difesa costante da parte di Washington delle azioni israeliane durante l’intervento in Libano o la guerra contro Gaza tra 2008 e 2009. Però ci sono stati dei periodi storici in cui questo collegamento si è fatto meno sentire. In un certo senso, secondo la mia opinione, alcuni aspetti delle rivolte arabe andrebbero analizzati in maniera più approfondita perché non vedo come l’attuale politica estera statunitense che sembra appoggiare le rivolte arabe possa giovare ad Israele, se si pensa al caso egiziano, dove lo status quo favorevole in un certo senso allo Stato ebraico è stato perso. Un altro caso riguarda l’allontanamento turco-israeliano; la Turchia è un importante alleato degli Stati Uniti nell’area; in questo periodo invece i rapporti tra Israele e Turchia sono in una fase molto delicata. Lo Stato ebraico osserva negativamente il nuovo ruolo “neo-ottomano” assunto dalla Turchia nel Vicino Oriente, mentre il modello turco potrebbe essere visto favorevolmente da Washington per il seguito delle rivolte arabe.
Per la fonte originale dell’intervista cliccare qui.
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